Recensione: Se la strada potesse parlare di James Baldwin

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Bentornati sul blog! Oggi vi porto la recensione di una delle mie ultime letture, un libro verso il quale nutrivo aspettative piuttosto alte, avendone sentito parlare molto bene da chiunque lo avesse già letto, ed effettivamente la lettura ha soddisfatto, se non addirittura superato, queste aspettative. Prima di iniziare la recensione vi lascio il sito della casa editrice Fandango, che mi ha mandato questo libro e che non smetterò mai di ringraziare per avermi fatto conoscere Baldwin e la sua meravigliosa scrittura.

Perché, capite, lui aveva trovato il suo centro, il suo centro personale dentro di sé: e si vedeva. Non era il povero negro di nessuno. E questo è un crimine in questo fottuto libero paese. Devi essere un povero negro: ed è stato quello che i poliziotti hanno deciso quando Fonny si è trasferito in centro.

Questo libro mi era stato presentato come una “bellissima storia d’amore” e io, non essendo una grande amante del genere, partivo un po’ prevenuta. Ora che l’ho terminato posso affermare che è molto di più, è sì una bellissima storia d’amore, ma non solo. E’ la storia di una famiglia, di un quartiere, di uno spaccato della società, di un periodo storico, che racconta senza la pretesa di spiegarlo, un intero mondo. Baldwin scriveva questo romanzo nel 1974, e la vicenda si sviluppa durante i turbolenti anni settanta in una società americana dove le discriminazioni razziali sono all’ordine del giorno. Siamo a New York, una New York bellissima e terribile, e seguiamo le vicende narrate in prima persona della giovane Tish, diciannovenne afroamericana incinta del suo ragazzo, il ventunenne Fonny, incarcerato ingiustamente per lo stupro di una donna portoricana che afferma di averlo riconosciuto come il suo aggressore. In pochissime parole, questa è la trama, in realtà c’è molto di più. Quella che inizialmente sembra una vicenda che ruota attorno a due soli personaggi, Tish e Fonny (che quasi conosciamo solo attraverso i ricordi di Tish), coinvolge invece due intere famiglie e tutte le persone che incrociano, anche per un attimo la vita di Tish. Baldwin infatti non risparmia nessun personaggio dal suo sguardo attento, e attraverso il fiume di pensieri di Tish ci porta a conoscere la sua famiglia, quella di Fonny e le persone che attraversano le loro vite, dal ragazzino tassista di San Juan, alla donna italiana che gestisce un fruttivendolo, all’uomo gentile che avrebbe affittato la sua soffitta ai due giovani. Così questa diventa anche la loro storia, la storia di una donna portoricana stuprata e spaventata, di un avvocato bianco e coraggioso, di una madre, Sharon, che per sua figlia e il suo futuro nipote farebbe (e fa) di tutto. Baldwin costruisce un vero mosaico, in cui ogni tessera tocca e influenza quelle che gli stanno accanto.

Il mondo vede quello che vuole vedere o, quando si arriva alla fine dei conti, quello che gli dici di vedere: non desidera sapere chi, cosa o perché sei.

E’ una storia d’amore, che non “rimane” tra due sole persone ma si espande tutto attorno a loro. E’ la storia di come l’amore può fare la differenza nella vita delle persone, di come può salvare e condannare, di come i rapporti sociali possono incidere nel corso dell’esistenza di un singolo individuo. In questo caso è esemplare il paragone tra la vicenda di Fonny e quella del suo amico Daniel, per mettere in luce la differenza tra due giovani che hanno avuto la possibilità di godere in modo diverso dei rapporti che li circondavano.

La drammatica storia di Fonny, che si è macchiato dell’unico crimine di essere nato nero, in una società profondamente razzista, accusato ingiustamente per un crimine che non ha commesso, è portata come uno schiaffo agli occhi del lettore, a denuncia di una società corrotta e votata alla discriminazione razziale. Nonostante il profondo dolore di cui è impregnata ogni pagina del romanzo, Baldwin non si perde mai in toni tragici e pesanti, anzi, riesce a raccontare questa storia con quasi un velato e leggero ottimismo, un senso di fratellanza, non solo tra i neri, ma più collettivo, che prescinde la nazionalità, il colore della pelle e l’etnia.

Lo stile si adatta al tono della narrazione: a raccontarci questa storia è la stessa protagonista, Tish, e Baldwin le regala una voce (forte, riconoscibile, determinata, disperata) e lo spazio necessario per raccontarci la sua storia. Lo scrittore si annulla in lei e allo stesso tempo è estremamente presente, le due voci si sovrappongono e per noi l’unica narratrice della vicenda diventa la giovane e inesperta Tish, e attraverso le sue stesse parole impariamo a conoscere lei e il mondo che la circonda. Questa scelta finisce per coinvolgere il lettore talmente tanto che a metà del libro ci sembrerà di essere con Tish per le strade di New York, di accompagnarla al lavoro, di guardare Fonny attraverso il vetro della sala degli incontri in carcere, ci sembrerà di essere lì, di far parte di quella storia, di essere a nostra volta coinvolti. Ci sorprendiamo con lei, ci arrabbiamo con lei, ci indigniamo, speriamo, sorridiamo, siamo felici, piangiamo con lei. E questa forza evocativa è forse il principale aspetto positivo del romanzo, al di là della trama, dei personaggi, della storia in sé, è il modo in cui viene raccontata questa storia ad avermi colpita e rapita.

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Credo che non succeda troppo spesso che due persone possono ridere e anche fare l’amore, fare l’amore perché ridono, ridere perché stanno facendo l’amore. L’amore e il riso provengono dallo stesso luogo: ma solo in pochi ci vanno.

Il registro è esattamente quello che ci aspettiamo da parte di una diciannovenne con un’istruzione media e tanta rabbia in corpo: a volte è un po’ sboccata, sempre sincera, racconta la sua realtà senza filtri, senza migliorare nulla di ciò che le passa per la testa, di ciò che sente. Ci racconta la sua frustrazione, la sua rabbia, la sua paura. Molto più di qualsiasi altro sentimento, è la paura a regnare nelle pagine di questo romanzo: tutti hanno paura, e la cosa che mi ha più colpito è che nessun personaggio ha paura per se stesso, non direttamente. Tutti sono spaventati per qualcuno di caro. Una sorta di paura condivisa e strisciante che lega ogni personaggio l’uno all’altro.

L’ultimo aspetto del quale vorrei parlarvi è anche l’unica nota dolente del romanzo: il finale. Ho apprezzato il finale aperto, ma l’ho trovato troppo aperto, un po’ arrangiato. Seguendo la storia, ho trovato naturale che non ci fosse la parola fine a questo romanzo, ma avrei sperato in qualcosa di più, visto lo svolgimento della trama. Mi è sembrato incompleto, sarebbero bastate una ventina di pagine per renderlo, almeno ai miei occhi, un romanzo praticamente perfetto.

Colpita dallo stile e dalle tematiche trattate da Baldwin, da sempre attivista per i diritti civili e che ha fatto delle denunce di discriminazioni razziali il centro di molte sue riflessioni, ho deciso di approfondire la sua figura e la sua produzione: Fandango ha portato in Italia La stanza di Giovanni, uno dei romanzi più conosciuti dell’autore e da quello che ho potuto capire dal loro addetto stampa, sono intenzionati a portarci tutte le opere dello scrittore (evviva!). Qui vi lascio un articolo sullo scrittore che ho trovato piuttosto interessante: si tratta un’intervista del 1962, pubblicata sul The Guardian, dopo l’uscita del secondo romanzo dell’autore. Qui Baldwin parla del suo controverso rapporto con la città di New York (è nato e cresciuto ad Harlem), sempre centro focale dei suoi romanzi, della sua scrittura e della necessità di lasciare l’America per vivere per un periodo di tempo in Europa.

“I left America because I thought that if I survived at all I would drown as a writer in bitterness. I wanted to be a writer, not a Negro writer.” – J. Baldwin

Vi segnalo inoltre, se foste interessati (come la sottoscritta) ad approfondire le tematiche di Baldwin, una raccolta di suoi saggi e riflessioni, edito Bompiani, Questo mondo non è più bianco.

Spero che questa recensione vi sia piaciuta e che sia riuscita a incuriosirvi un po’ riguardo a questo meraviglioso libro, al quale spero decidiate di dare una chance. Come sempre vi lascio qui il link per acquistarlo tramite il mio link di affiliazione ad Amazon.

Recensione: La casa sul Bosforo di Pinar Selek

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Istanbul è una città immensa, carica di miti. Ora piange, ora ride. Un intreccio di microcosmi. Di tempi e di luoghi. Di ricordi e speranze. Di dita rovinate, di labbra di rosa, di sguardi segreti…

Sono molto felice di potervi parlare di questo libro, in parte perché desideravo leggerlo da tempo, e in parte per il modo con cui ne sono venuta in possesso. Questa sarà una recensione un po’ fuori dai soliti schemi, per ragioni che capirete andando avanti con la lettura. “La casa sul Bosforo” è il primo libro promosso dalla campagna di #freereading di Acciobooks, un sito dove potete scambiare gratuitamente i vostri libri con altre persone sparse per tutta Italia. Come funziona la campagna di free reading? Vi rimando al loro profilo Instagram, dove potrete trovare tutte le informazioni dedicate al progetto tra le storie salvate in evidenza, e nel caso decidere di partecipare alle prossime edizioni. Grazie a questa iniziativa potrete essere tra i fortunati scelti per ricevere una copia di un libro gratuito, come è successo a me per il libro di cui vi parlo oggi, per poi “rimetterlo in circolo” una volta letto e scambiarlo.

Di cosa parla La casa sul Bosforo? Siamo a Istanbul, seguiamo, nel corso di circa un ventennio, due giovani coppie attraverso avvicinamenti e allontanamenti nel tempo, partendo dai primi anni ottanta e arrivando fino agli anni duemila. Questo era quello che mi era stato detto a proposito di questo libro, questo era quanto mi aspettavo. La verità è che ci troviamo davanti a un’opera ben più complessa, articolata e preziosa di quanto queste brevi frasi possano lasciar presagire. Sì, ci troviamo a Istanbul, ma se come me siete innamorati della colorata città turca, preparatevi a immergervi di nuovo (se, come me, avete già avuto il piacere di conoscerla) nell’atmosfera famigliare e ricca di contrasti della città. Preparatevi a esplorarla insieme ai protagonisti, a riconoscerne gli odori e i colori. Istanbul, e in particolare il quartiere di Yedikule, prendono vita tra le pagine di questo libro. Yedikule è l’ambientazione principale delle vicende, che però non si limita a fare da sfondo ai racconti dei personaggi che popolano il quartiere, ma si fonde con loro e diventa lo stesso motore che fa muovere le loro storie. Sarà proprio qui che convergeranno le storie dei numerosi personaggi, qui che la loro vita in un modo o nell’altro cambierà, sullo sfondo dei vicoli e delle botteghe di Yedikule compieranno scelte difficili, si innamoreranno, combatteranno per ciò in cui credono e sacrificheranno quanto hanno di più chiaro al mondo.

Ma chi sono questi personaggi? Sono tanti, diversi, e hanno origini differenti, alcuni hanno radici in paesi lontani, altri non le hanno mai avute. Ci sono Sema, che era convinta di essere una ragazza svogliata e destinata a una vita mediocre, Hasan, un musicista che arriverà fino a Parigi prima di capire che le sue radici sono più forti di ciò che pensava, il falegname Salih, dal cuore grande e innamorato di Sema, Elif, che cerca la giustizia e un ideale al quale consacrare la sua vita, Guljan, la madre di Sema che per dare una vita migliore della propria alla figlia accetta le umiliazioni di una ricca famiglia sul luogo di lavoro, Haydar, che non è più sicuro della guerra che sta combattendo e per la quale ha sacrificato tutto, anche il suo nome, la prostituta Handè che ha deciso di cambiare vita. Potrei continuare per molto ancora, perché questi sono solo alcuni dei personaggi che incontriamo a Yedikule, tra chi vive e vivrà lì per tutta la vita, chi è solo di passaggio e chi è appena arrivato con l’intenzione di restarci per sempre. Inizialmente ho fatto un po’ di fatica a seguire le diverse storyline di tutti i personaggi, ma non appena si sono iniziati a incrociare ecco che succede la magia, e ho ritrovato il mosaico di culture, odori e personalità che avevo trovato durante il mio viaggio a Istanbul ormai quattro anni fa. L’autrice tira i fili della trama, sospinge delicatamente i suoi personaggi verso Yedikule, come sussurrando loro che è lì che devono andare, anche se ancora non sanno perchè.

Le persone ci mettono sempre troppo tempo a conoscere ciò che hanno a portata di mano. Guardano solo le cose inaccessibili.

Non c’è città migliore per ambientare un romanzo corale come questo. Sarò di parte, ma Istanbul è la città dai mille volti, dalle mille storie, dove chiunque può sentirsi allo stesso tempo accolto e rifiutato. Mi rendo conto di non scrivere una recensione particolarmente oggettiva, in questo caso, così come di non fornire molte nozioni specifiche riguardo alla trama, ma credo che in questo caso l’atmosfera che si respira in ogni pagina del romanzo sia ben più importante della ricostruzione dei singoli avvenimenti.

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Il libro è raccontato come fosse una fiaba, più realistica di ciò che di solito siamo abituati a individuare come tale, ma dalle tinte un po’ magiche, se vogliamo, sospesa fuori dal tempo. Allo stesso tempo però il racconto viene ben radicato nella quotidianità, e si scontra con la realtà, in certi punti in modo violento e terribile. Questa storia non parla solo di accettazione, aiuto reciproco, amore, fiducia e sacrificio, ma anche di fuga, rifiuto, guerra e paura del diverso. Istanbul è la città con due facce: da secoli integrazione e rifiuto si scontrano quotidianamente tra le sue vie, e sarebbe errato ricordarsi solo della parte magica: c’è anche quella tradizionalista, violenta, soppressiva, e soffocata da tutte quelle culture che storicamente compongono il tessuto sociale della città. Greci, armeni, ebrei, curdi: è difficile ormai tenere il conto di quante minoranze si siano intrecciate, mischiate e allo stesso tempo odiate all’interno di questa città. Questo libro ci aiuta nell’intento di non dimenticare alcuni importanti avvenimenti (il colpo di Stato del 1980, il Pogrom d’Istanbul, la crisi di Cipro, le discriminazioni razziali e religiosi perpetrate verso numerose minoranze etniche), raccontandoci dell’abbagliante luce di Istanbul, senza però nasconderne le ombre. Personaggi armeni, greci e curdi prendono la parola e ci  raccontano la loro storia, probabilmente inventata essendo un lavoro di fiction, ma sicuramente non si discosterà molto dalla verità di numerose persone che, anche solo nell’ultimo secolo, si sono trovate coinvolte in eventi tragici ben più grandi di loro, solo per via della nazionalità dei propri genitori o dei propri nonni. Istanbul è stata, e purtroppo è, anche questo: un mosaico di luci e ombre indistricabili.

L’aspetto immutato malgrado gli anni. Gli occhi scuri offuscati: dalla pioggia o dalle lacrime?

L’ultimo aspetto sul quale mi soffermo, prima che questa diventi una recensione chilometrica, è lo stile dell’autrice. Lo stile della Selek è molto delicato, quasi sognante per certi versi, e allo stesso tempo diretto, caratterizzato da frasi piuttosto brevi e dialoghi diretti, incisivi, veloci, a volte troppo, ed  è forse l’unico aspetto che non mi ha conquistato del tutto di questo libro. Avrei apprezzato alcune descrizioni più approfondite della città, uno studio maggiore della psicologia dei personaggi, per quanto siano molti e difficilmente analizzabili nella loro singolarità.

Vi è piaciuta la mia recensione di La casa sul Bosforo? Vi ricordo che sarà presto in scambio sulla mia libreria di Acciobooks, in alternativa vi lascio qui il link per acquistarlo su Amazon. Se decidete di acquistare il libro attraverso il mio link di affiliazione in riceverò una piccola percentuale sulla vostra spesa, che verrà utilizzata per l’acquisto di altri libri da recensire sul blog. Grazie a tutti quelli che hanno usato o utilizzeranno il link in futuro!